Con gli alpini sulla Marmolada
Questo libro tratta la cronaca della Prima Guerra Mondiale sul gruppo montuoso della Marmolada, scritta a quattro mani dal diretto protagonista, il capitano Andreoletti. Il libro incomincia parlando delle imprese alpinistiche compiute anche dallo stesso Andreoletti sulle pareti dolomitiche, inospitali, solitarie e viste romanticamente come una sfida titanica. Le ascensioni sulle Dolomiti si moltiplicarono infatti a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento e si interruppero con la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria con lo schieramento delle truppe sui fronti. La difesa austriaca fu affidata inizialmente agli Schutzen, tiratori scelti, per lo più cacciatori, grandi conoscitori dei luoghi, mentre gli Italiani consegnarono il comando di parte del settore al capitano, che sfruttò al meglio la sua conoscenza alpinistica e topografica, perché ben presto alla sfida tra Austro-ungarici e Italiani si aggiunse la lotta tra l'uomo e la natura. Sin dal primo schieramento delle truppe italiane si capì che il fenomeno dello stallo del fronte e la conseguente guerra di trincea, che già aveva colpito sia fronte orientale che quello occidentale, avrebbe interessato anche la guerra in montagna. L'introduzione delle nuove armi come la mitragliatrice e le nuove carabine progettate alla fine XIX secolo, costrinsero ancor più che in pianura alla guerra di posizione. Gli Austriaci infatti si erano asserragliati sulle cime più impervie ed imprendibili: gli Italiani per avere qualche possibilità di vittoria li seguirono su posizioni altrettanto audaci e quasi impensabili.Per sfuggire ai bombardamenti e alle attività di cecchinaggio fu necessario costruire un dedalo di gallerie scavate nel cuore delle montagne ed intere cittadelle di supporto sorsero arroccate sulle vette dei monti come al passo Le Selle o su Cima Bocche. Tutte le posizioni vennero servite da migliaia di chilometri di strade militari tracciate in pochi mesi. Fu ricavata anche la leggendaria Città di Ghiaccio all'interno del ghiacciaio della Marmolada, un rifugio e una base d'attacco allo stesso tempo. Questo nuovo tipo di guerra costrinse a vere rivoluzioni della logistica e del combattimento. Le cifre, impietose, parlano chiaro. L'ambiente era talmente ostile che per mantenere una persona al fronte ne servivano altre otto nelle retrovie, mentre il numero di morti tra i portatori superava quello dei combattenti in prima linea. Anche la guerra di mine, nata in epoca post medioevale, venne stravolta dall'introduzione dei compressori, dalle nuove conoscenze in campo ingegneristico e minerario. Le mine si rivelarono spesso l'unica soluzione per avere ragione di posizioni altrimenti inespugnabili. Così agli usuali tormenti della guerra si aggiunse il sordo picchiare dei martelli pneumatici. Questi strumenti vennero usati per scavare le gallerie e la camera di scoppio in cui si sarebbe posizionata la carica esplosiva; non sentire più i magli lavorare annunciava l'imminenza della fine. I soldati poterono solo sperate di essere trasferiti oppure in licenza al momento del brillare della carica, solo la Provvidenza poteva decidere del loro destino. La guerra delle mine colpì molto a livello psicologico entrambi i fronti risvegliando le antiche paure dell'uomo.
Il gruppo montuoso della Marmolada non vide né vinti né vincitori. Il susseguirsi di attacchi, controffensive, piccole conquiste e successive perdite di fazzoletti di roccia terminarono senza esiti definitivi. Gli eroismi di entrambe le parti, la fatica ed il dolore di ogni attimo in quei lunghi anni non determinò le sorti del conflitto tra quelle vette. La disfatta di Caporetto infatti obbligò gli Italiani all'abbandono delle posizioni per motivi strategici. Il silenzio ritornò sulle creste così a lungo violentate dalla furia dell'uomo. Tutti questi eventi, pur dipingendo immani tragedie umane, vengono talvolta descritti nel libro come una cronaca fredda e monotona, apparentemente incapace di coinvolgere il lettore. Eppure, talvolta, tra le righe traspare il grande cuore di questo coraggioso militare, soprannominato “Padre Eterno” per la sua inflessibilità, ma capace di tormentare i comandi alla ricerca di equipaggiamenti adeguati per la truppa tanto da incorrere alla destituzione dall'incarico.
Cosa rimane oggi di quelle gesta tanto acclamate? Da molti anni un lavoro continuo ed assiduo di restauro sta riportando alla luce le sepolte trincee e e i dimenticati ricoveri. Livio Defrancesco, grazie al contributo della provincia di Trento, ha ricostruito tutte le posizioni da Soraga alla val di Tasca. Io stessa ho avuto la possibilità di visitarle percorrendo le alte vie Bruno Federspiel e Bepi Zac, il trinceamento di Fango, le fortificazioni di Cima Bocche. Il recupero di questi luoghi permette a chi abbia una media formazione alpinistica l'opportunità di vedere con i propri occhi quello che il racconto di un libro non permette al cuore di capire.
G. III E
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