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L'unica nostra arma è la pace


Se avete fretta, non leggete questo libro. Il lettore è avvisato fin dalle prime pagine. Non si tratta infatti di un romanzo, con un protagonista eroico e avventuroso, ostacoli da superare e un finale in cui tutto si risolve. Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita, considera la lettura come uno strumento per acquistare consapevolezza. Per questo si rivolge direttamente al lettore dandogli precise istruzioni: “Leggi queste pagine lentamente e con calma, in modo che l’atto stesso di leggere sia un’azione di pace”.

La conquista della pace è il tema di questo libro, che si può definire una specie di manuale per migliorare la propria vita. Thich Nhat Hanh, nato nel 1926, era un giovane monaco nel 1946, quando scoppiò il conflitto con i Francesi per il controllo dell’Indocina. Negli anni Sessanta si trovò a vivere la difficile situazione della guerra del Vietnam. Nonostante l’oppressione e la violenza di quegli eventi, lui e i suoi compagni monaci riuscirono a mantenere la pace interiore e ad aiutare molte persone bisognose. Da questa esperienza nasce l’idea che la pace possa essere coltivata dentro di noi indipendentemente da ciò che succede all’esterno. I riferimenti sono il buddhismo e il principio di non violenza insegnato da Gandhi, ma i concetti espressi sono molto semplici e si trasformano in consigli di vita. Ognuno può imparare a mantenere la pace e “portare la propria pratica nel mondo”. La storia di Buddha dà un esempio di come si possa usare la propria pace interiore per portare la pace intorno a sé: la notte prima di raggiungere l’illuminazione Buddha fu aggredito da Mara il Tentatore. I demoni gli scagliarono contro migliaia di frecce, ma queste arrivandogli vicino si trasformarono in fiori: la comprensione e la compassione, parole chiave di questo libro, danno il potere di ricevere le parole e le azioni violente e renderle innocue “trasformandole in fiori”. I principi del buddhismo vengono riportati nella vita concreta attraverso i continui collegamenti con i fatti storici vissuti dall’autore: così nel 1968 la sua allieva Chan Khong, minacciata di essere cacciata dall’università in cui insegnava per aver creato e diffuso una petizione contro la guerra, usa la comprensione per “trasformare le frecce in fiori”. Invece di accettare la violenza, parla al suo accusatore, il Ministro dell’Istruzione, ricordandogli che anche lui era stato un insegnante ed è ancora “il fratello maggiore degli insegnanti più giovani”. Ogni insegnante deve volere la pace come dono per i suoi allievi.

Ognuno può entrare in contatto con gli altri se riesce ad assumere il loro punto di vista attraverso la compassione. Oggi quando sentiamo la parola compassione pensiamo a un sentimento vicino alla pietà. Per Thich Nhat Hanh la compassione deve essere intesa “nel suo significato etimologico di cum patior, ‘provare sentimenti con’”. Per esempio la puntura dolorosa di uno scorpione in un villaggio isolato può insegnare a capire la paura e la sofferenza dei contadini che abitano lontano dalle città e dagli ospedali: condividere un’esperienza aiuta a capire gli altri. Forse i metodi che suggerisce sono un po’ troppo distanti dal nostro mondo: la respirazione consapevole e le meditazioni sono troppo difficili da praticare. Di tutti gli otto capitoli del libro, quello più difficile da leggere per un ragazzo è “la pratica della pace con i figli” perché è affrontato dal punto di vista di un genitore. L’autore pensa ad una condivisione di queste pratiche con la famiglia e con gli amici, ma non è una condizione facilmente realizzabile. La parte più coinvolgente resta la narrazione di piccole storie, di avvenimenti e ricordi che mostrano come sia possibile avvicinarsi a persone anche molto diverse. Leggendo le vicende di Chan Khong, del giovane soldato francese, del maestro An e dei contadini di Saigon si entra nella vita di altre persone e si partecipa alle loro emozioni. È bello pensare che queste idee possano allargarsi all’esterno e possano spiegare i fatti che oggi viviamo. Così nel libro si arriva ad affrontare il fenomeno del terrorismo, che finché verrà gestito attraverso la repressione non si risolverà: “Se uccidiamo un terrorista padre, il figlio forse diventerà un terrorista; più uccidiamo, più terroristi generiamo”. Per sradicare il terrorismo bisogna invece sradicare “la malattia dell’ignoranza e dell’incomprensione tra le persone”. Non so se tutto questo sia davvero possibile, ma pensare che a raccontarlo sia un sopravvissuto a guerre terribili, aiuta a mantenere la speranza.


A. III E



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