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Lettere e diari dal fronte della Prima guerra mondiale

I testi qui riuniti sono alcuni fra quelli scritti dagli alunni di III D. Sono il risultato sia dello studio in Storia della Prima guerra mondiale e delle situazioni in cui vivevano i soldati dell’esercito italiano, sia delle esercitazioni in Italiano sulle tipologie testuali della lettera e del diario. I ragazzi dovevano immaginare un soldato, precisandone l’età, la condizione sociale e culturale, l’aspetto fisico e il carattere; hanno dovuto determinare anche il luogo preciso e il momento della guerra in cui il militare avrebbe potuto scrivere per se stesso o per i propri cari. Poi, immedesimandosi, hanno scritto, usando la grande sensibilità di cui sono capaci.

Caporetto, 21 ottobre 1917


Cari mamma, Timmy e Lucia, come state? Spero bene. Mi mancate tanto, ma qui nella prima linea del fronte non si può scrivere spesso, quindi vi chiedo scusa perché non vi mando tante lettere come quelle che voi inviate a me. Cosa fate di bello lì a casa? Timmy ha perso quel dentino che gli dondolava? Lucia ha ritrovato la sua bambola di pezza? Se sì, scommetto che era di nuovo finita sotto al letto. Raccontatemi tutto nella prossima lettera, mi raccomando. Qui al fronte non si sta tanto male, gli altri soldati sono simpatici e uno di loro, Luigi, è diventato mio grande amico. Ha due fratellini più piccoli, come me, e anche un cane. Chissà, forse quando finirà la guerra potremo andare a trovarli a casa loro, sono sicuro che diventereste ottimi amici! Mamma, adesso ti chiedo di non leggere più questa lettera a Timmy e Lucia, non voglio che sentano quello che sto per dirti. Non ce la faccio più! Qui fa freddo, anche se è solo ottobre, e di notte per non congelare io e gli altri soldati dobbiamo stringerci e stare vicini. Il cibo è poco, in scatola, ed è una poltiglia immangiabile e fredda, che non riempie lo stomaco. I superiori sembrano tutti impazziti! Ordinano assalti insensati e che non portano a nulla. A ogni battaglia ho paura di morire e non so come difendermi, visto che ci fanno correre verso le trincee nemiche sparando all’impazzata. Mi sembra di perdere il senno! Voglio scappare via da qui! Solo Luigi e il pensiero che se scappassi mi ucciderebbero mi fanno rimanere. Tre giorni fa abbiamo fatto un assalto. Abbiamo perso quasi subito. Ci hanno detto di prepararci con le maschere antigas, i fucili e le baionette e di tenerci pronti. Mi aveva preso un’ondata di terrore e vedevo che anche Luigi aveva paura. Poi hanno dato l’ordine. Siamo usciti dalla trincea, correndo e sparando, ma i nemici non erano stati colti di sorpresa e hanno cominciato a sparare anche loro. Era un inferno di fuoco e i boati delle granate si udivano dappertutto. A un certo punto ho sentito un dolore tremendo al ginocchio e sono caduto. Vedevo tutto annebbiato e la testa mi girava. Sarei morto se Luigi non mi avesse aiutato ad alzarmi e costretto a correre verso il nostro fronte. Avevamo già perso la battaglia. Per il ginocchio non preoccuparti, è una ferita superficiale e non si è infettata, anche se l’hanno curata in trincea. Non mi fa neanche tanto male. Tra poco mi trasferiranno nelle retrovie, adesso non riesco a camminare senza zoppicare. Non preoccuparti, mi rimetterò in forma. Cara mamma, non era mia intenzione farti preoccupare tanto ma dovevo sfogarmi con qualcuno. Abbi fiducia che il tuo figlio maggiore farà di tutto per tornare presto a casa sano e salvo. Vedrai, ci riabbracceremo presto. Saluto te, Timmy e Lucia e aspetto con ansia la vostra risposta. Intanto vi penserò sempre e spererò che stiate bene e che passiate dei bei giorni a casa. Con affetto, Giovanni

F. III D


Caporetto, 23 ottobre 1917


Caro diario,

ieri non sono riuscito a scriverti, un po’ per il frastuono delle granate austriache che bombardavano la nostra trincea, un po’ perché ho perso il mio “tesoro”, cioè tutto quello che mi rimaneva: la penna. Se oggi ti scrivo è solo grazie a Tommaso, che è davvero gentile con tutti e mi ha prestato la sua. Molti altri miei commilitoni hanno un diario, ma la maggior parte scrive, sulla carta o sul legno della nostra trincea, frasi di pace col sangue. Sembra impossibile ciò che accade in guerra e sento odio e rabbia crescermi dentro, ma tanto so, come mi dicono tutti i miei compagni, che sono solo un “giovincello”, basso e magro, come un intruso tra gli uomini forti, poderosi, coraggiosi e pronti a combattere che ci sono al fronte. “Giovincello” è diventato proprio il mio soprannome e qui tutti mi hanno a cuore: sono il loro fratellino minore, anche se domani compio diciotto anni. È proprio la simpatia che provano gli altri uomini verso di me che mi ha salvato dalle “grinfie” del tenente. Ieri gli Austriaci sono avanzati molto nella “Terra di nessuno” e io avevo paura; come avrai capito, sono un fifone e per questo ho pensato che avrei preferito morire fucilato piuttosto che ucciso dal nemico e cadere, abbandonato, nel fango di colore rosso scarlatto a causa del sangue dei miei compagni o dei miei avversari. Così mi sono infilato in un fossato che sapevo mi avrebbe portato al sicuro, con l'intenzione di correre poi in un boschetto un po’ discosto dalla prima linea. Ho strisciato tra la terra che bruciava di vermi gonfi e rosati e in quel momento mi sono sentito come loro: viscido e strisciante.

Mentre continuavo ad avanzare nel tunnel sentivo le voci dei miei compagni feriti che si accatastavano gli uni sugli altri: era uno spettacolo macabro che riuscivo ad osservare solo chiudendo gli occhi. Continuando ad avanzare nella strettoia, che conoscevo molto bene, ero arrivato vicino alle latrine e avevo continuato ad avanzare gattoni. Ero sicuro di non essere stato visto da nessuno e stavo provando a sistemarmi in un posto sicuro per poi allontanarmi il più possibile quando sentii la voce del tenente alle mie spalle. Mi aveva seguito. Subito mi riportò in trincea dove i soldati combattevano e non so come ma scoppiai anche a ridere, perché, lui, essendo alto, doveva accucciarsi moltissimo per non essere visto, mentre io no: potevo restare dritto senza che un proiettile mi sfiorasse. Mi condusse in una stanzetta comoda e calda, senza vermi, acqua stagnante e fango e per un attimo pensai di essere in Paradiso. Quando poi disse che sarei stato fucilato per tentativo di diserzione, mi misi a piangere: non avevo ancora diciotto anni e avrei già dovuto morire!

Intanto gli ultimi colpi di fucile risuonavano in aria. Non eravamo riusciti a guadagnare neanche un centimetro di più, come sempre. Poco dopo il sottotenente e il sergente erano entrati nella stanza e il tenente, già pronto per portarmi fuori al freddo e fucilarmi era stato investito dalle loro invettive. I miei amati commilitoni erano riusciti a fargli cambiare idea! Mi sfuggì anche in questo caso una risata perché era davvero divertentissima la scena a cui stavo assistendo: il tenente era stato obbligato a lasciarmi stare e tutto finì per il meglio. Non morirò, ne sono sicuro, perché ho dei compagni fantastici che mi apprezzano e mi sostengono. Ti scriverò domani di sicuro Tuo, “Giovincello”.


P.S.: Credo che i miei commilitoni abbiano preparato una sorpresa per me perché domani, il 24 ottobre, è il mio compleanno! Sono contento perché compirò diciotto anni e magari i miei compagni cambieranno il mio soprannome o mi regaleranno una nuova baionetta! Il regalo che desidero con tutto il cuore, però, sarebbe ritrovare, almeno per un giorno, la mia famiglia per festeggiare insieme il mio compleanno. “Giovincello”.

G. III D



26 febbraio 1916

È la prima volta che scrivo su questo diario per raccontare la guerra, quindi mi presento. Mi chiamo Davide e domani partirò per andare in guerra.

Davide


15 marzo 1916

Caro diario,

ormai é tardi sono già arrivato da qualche tempo e visto quello che è successo a mio fratello non so se voglio arrivare vivo alla fine della guerra, anche se finisse domani. Il viaggio è stato terribile: siamo arrivati da Milano a piedi e poi per cinque giorni ci siamo addestrati alla battaglia in trincea.

Domani vado al fronte

Davide


16 marzo 1916

Caro diario,

oggi sono andato in seconda linea, qui non si rischia di morire, ma c'è stata una battaglia in prima linea e moltissima gente è morta. È passato un giorno e voglio già andarmene: ho solo 18 anni, non ho fatto niente di male per meritarmi di arrivare qua.

Davide


18 marzo 1916

Caro diario,

oggi dalle trincee ci hanno detto di usare i mortai e bombardare le trincee austriache; mi sono messo a farlo però io non volevo uccidere nessuno, quindi ho sparato solo un colpo. Io non voglio la guerra, soprattutto da quando mio fratello è tornato a casa in una bara; non voglio che altre persone si sentano così male come siamo stati io e i miei genitori

Davide


21 marzo 1916

Sono in prima linea.

Davide


17 aprile 1916

Caro diario,

non ti scrivo da tempo perché non ne avevo la forza. Qualche giorno fa, intorno al 23, siamo andati in battaglia; tutti hanno iniziato a correre verso i nemici, io invece mi sono nascosto dietro un cespuglio, ho diretto un attimo lo sguardo verso la battaglia e ho visto il mio migliore amico, Luca, morire. È cresciuto dentro di me un odio profondo verso l’Austria, ho iniziato a sparare senza neanche sapere dove o perché, visto che avevo gli occhi colmi di lacrime. Nella furia ho ucciso anche degli Italiani. Il maresciallo mi ha preso, mi ha portato via, mi ha consegnato ai carabinieri come traditore della patria e mi ha portato in carcere per uccidermi il giorno dopo. Ho passato la notte a cercare di scalfire con le unghie il muro della prigione, ma è stato tutto invano. La mattina, mentre mi portavano nel luogo dell’esecuzione, mi sono liberato e sono riuscito a scappare, non so neppure io come. Mo sono avvicinato ai luoghi vicino al mio paese, ma non torno a casa perché verranno di sicuro a cercarmi. Per ora vivo nei boschi, nascosto, e non ho ancora raccontato questa storia a nessuno e non so se la racconterò mai.

Davide

E. III D


22 settembre 1916

Caro diario,

oggi è il 22 settembre 1916, è già inverno e nevica qui sulle Alpi del Trentino. Ogni volta che cade un maledetto fiocco di neve il fango della mia trincea aumenta sempre di più. Sono in prima linea o meglio, lo ero. Ieri c’è stata una battaglia. Te la racconto. Ci avevano comunicato che dopo i bombardamenti da parte degli aerei alleati sui nemici, saremmo dovuti salire nella Terra di Nessuno e attraversarla fino al fronte nemico. I bombardamenti non cessavano da tre giorni. Non ne potevo più. Io e i miei compagni eravamo rannicchiati nel nostro piccolo buco, ricoperti di fango, sapendo che nessuno di noi sarebbe riuscito a uccidere un uomo durante la battaglia. Forse era meglio morire. Finalmente ci diedero l’ordine di attaccare. Fucile in mano e baionetta innestata, ci mettemmo a correre come dei matti sparando senza mirare, con gli occhi chiusi. Quando riuscimmo a trovare un varco per entrare in quella trincea, i soldati cominciarono a colpirci con la baionetta, ma noi eravamo troppi, non riuscivano a ucciderci tutti. Quando tutto si fermò, riuscivo a vedere tutto al rallentatore, persino i proiettili. Mi guardai la pancia, avevo un profondo taglio nello stomaco. Perdevo molto sangue. Caddi a terra, in ginocchio. Quando il mio migliore amico Tommaso mi vide, mi prese in spalle e mi portò fino alle nostre retrovie. Questa mattina è stato fucilato per mancato rispetto dell’ordine di proseguire l’attacco. Ora sono in infermeria e soffro come un cane. Sono bendato intorno al torace, ma ho un buco nella pancia che si sta infettando. Vorrei sapere com’è finita la battaglia, quanti morti ci sono stati, ci dovrei essere anche io tra loro. Sono un soldato semplice, ho un ruolo molto basso nell’esercito ed essere qui in infermeria in condizioni “migliori”, mi fa stare sia bene che male. Bene perché qui si sta meglio siccome non sono in mezzo al fango, non mangio nell’elmetto, i cibi sono caldi e ho qualcuno che si prende cura di me. Male perché ho un buco in pancia, la febbre altissima, hanno ucciso il mio migliore amico a causa mia e mi sento in colpa per il fatto che io sono qui anche se non lo merito. Sono scappato invece di morire. Provo allo stesso tempo dolore, rabbia, paura e nostalgia di casa. Chissà come sta mia moglie. Ci eravamo appena sposati. Non ho visto la nascita di mio figlio e probabilmente mai lo vedrò. Morirò, ma non voglio scrivere una lettera a mia moglie, voglio solo che queste due pagine vengano date a lei e a mio figlio, in mio ricordo. Il mio comandante ha posato una pistola sul tavolo dell’infermeria. Mi alzo a fatica. La sto prendendo. Me la punto alla testa.

Vi amerò per sempre.

Davide

J. III D


29 ottobre 1917

Cara mamma,

scusa se non ti ho scritto per tutto questo tempo, ma sono stato spostato in prima linea e la vita laggiù non è come nelle retrovie, dove sono adesso. La situazione è degenerata; non so se ti arriverà questa lettera: in Italia non le spediscono più, perché vengono censurate. Penso che in Patria non sappiate quello che è successo. Mamma, è stata la peggiore delle vicende della mia vita. Ho visto la morte passarmi davanti. Se mi sono salvato, il merito è del mio migliore amico, era come un fratello, piango all’idea che la sua giovinezza sia stata stroncata. Ebbene, non ho potuto scriverti prima anche perché non trovavo le parole, ma ora posso raccontarti il giorno più cupo della mia vita. Era il 24 ottobre, potresti dire pochi giorni fa, ma per me sono stati i giorni più lunghi della mia storia. Da sette giorni i nostri cannoni bombardavano le trincee austriache, ma quando arrivò quel dannato giorno, ci venne dato l’ordine di andare all’assalto. Da una settimana sapevamo che questo momento sarebbe arrivato, ma non avevamo mai pensato a una sonora sconfitta. Qui, a Caporetto, ci venne dato l’ordine di attaccare. Superammo la Terra di nessuno senza nessuna difficoltà; dall’altra trincea nessuno sparava. Trovammo un varco nel filo spinato e entrammo nella trincea nemica. Qui, davanti a noi, vedemmo una cosa che ci rallegrò tutti e pensammo che i cannoni avessero fatto centro; tutti gli Austriaci erano ammassati per terra. Erano morti, secondo noi; invece ci avevano teso un’imboscata.

In quel preciso momento tutti loro si alzarono in piedi e cominciarono a spararci; io venni colpito a una gamba e caddi a terra. Pensavo fosse la mia fine. Un uomo mi puntava la pistola alla tempia. Fu qui che il mio migliore amico mi salvò. Mentre l'Austriaco stava per premere il grilletto, Piero si mise tra me e la pistola. Il proiettile lo trapassò da parte a parte, ma Piero non si arrese e colpì alla gola il nemico con la baionetta. Poi cadde a terra, mi disse qualcosa e morì subito. In quel momento non sentii più il dolore alla gamba. Presi il corpo di Piero e iniziai a trascinarlo via, scappando. Fuggivano anche i miei compagni, però molti di loro vennero colpiti alle spalle. Mentre scappavo piombò una bomba su di me. Esplose alle mie spalle, spezzando in due Piero. Io rimasi con metà corpo in mano, l’altra era ormai ridotta a brandelli. Non volevo lasciare il mio amico, avrei preferito morire, ma passò di lì il tenente. Mi vide. Mi prese per i capelli e mi portò alle nostre trincee, dove erano arrivati prima di noi i nemici che continuavano a spararci e molti di noi ormai inermi morirono sotto il fuoco nemico. Noi Italiani fummo costretti a scappare. Riformammo le nostre linee lungo il Piave. Questa fu una grande vittoria per gli Austriaci che conquistarono 120 Km.

Allo stesso tempo è stata la nostra più grande disfatta. Maledico il giorno in cui mi arruolai volontario nell’esercito. Giuro che se io tornerò a casa sano e salvo prenderò te, mia moglie e i miei figli e vi porterò in Brasile. La mia lettera finisce qui. Tanti saluti dal tuo figliuolo.

Nicolò

A. III D



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