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Giornata della memoria - La testimonianza di Liliana Segre

In occasione della Giornata della memoria abbiamo ascoltato, in classe, la testimonianza di una signora ebrea, ancora viva, che ha raccontato la sua esperienza nei campi di concentramento. Si chiama Liliana Segre. Il Giorno della memoria è una data molto importante perché il 27 gennaio 1945 i Russi entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz. A quel tempo esistevano numerosi campi di concentramento come quelli di Dachau, Bergen Belsen, Treblinka, Sobibor, Birkenau, situati in Germania e in Polonia. In essi furono uccisi pressappoco sei milioni di Ebrei e altri prigionieri considerati di razza inferiore rispetto a quella tedesca. Furono condannate a morte anche molte persone considerate traditrici per aver ospitato e/o aiutato gli Ebrei. “Sono una nonna che non racconta fiabe, ma ci sono stati personaggi cattivi anche nella mia vita”. Così inizia la testimonianza di Liliana, durante la quale racconta com’è stata la sua vita prima e dopo essere stata condotta ad Auschwitz. È nata il 10 settembre 1930 a Milano da due genitori di religione ebraica. Figlia di Ebrei, ha perso la mamma molto giovane; il nonno, che soffriva del morbo di Parkinson, e la nonna sono stati venduti per 5000 lire. Il padre di Liliana è stato bruciato nei forni crematori ad Auschwitz…. Liliana è stata l’unica della sua famiglia a sopravvivere e oggi racconta che prima della persecuzione contro gli Ebrei andava a scuola, una scuola normale, con tutti i suoi compagni, anche tedeschi, quando a inizio terza, nel 1938, l'anno in cui vennero emanate le leggi razziali, le dissero che era stata espulsa. Lei chiese a suo padre il perché fosse stata mandata via dalla scuola che tanto amava, ma non ebbe mai la risposta e ancora adesso fatica a capirne il motivo. La iscrissero in una nuova scuola e lei imparò a dividere la vita in due: quella di casa, nella quale i poliziotti venivano a bussare alla porta, dove spesso suonava il telefono e quando si andava a rispondere, voci anonime, voci che non aveva mai udito la insultavano, dicendo cose che capì solo tempo dopo, e poi la vita scolastica, nella quale non parlava mai di quello che le succedeva a casa. Cercava di essere come tutti gli altri, ma lei non lo era. Dopo un po’ di tempo, lei e suo papà si rifugiarono in un paesino, dove affittarono una modesta casetta. Liliana aveva dodici anni: in quel piccolo paese c’era solamente una scuola, ma lei non poteva frequentarla. Il padre affidò Liliana a degli amici, mentre lui si procurò nuovi documenti per lei e se stesso. Andava sempre a trovarla, sfidando il pericolo. Oggi Liliana pensa di non essere stata riconoscente verso quella gente quanto avrebbe dovuto, ma allora non sapeva che per coloro che ospitavano gli Ebrei come lei c’era la pena di morte. Un giorno il padre le disse che potevano partire. Erano felici! Si misero in cammino e, a pochi passi dalla salvezza, videro i contrabbandieri sulle colline, s’infilarono in un anfratto dove passavano animali e prigionieri; dopodiché, arrivati dall’altra parte, pensavano di essere salvi, ma prima di varcare il confine, una guardia disse che erano degli imbroglioni e li fece riaccompagnare da dove erano arrivati. “Avrebbe semplicemente potuto far finta di niente, chiudere un occhio e forse mio padre non sarebbe morto”, così Liliana esprime la sua disapprovazione per il comportamento di quell’uomo. Racconta che erano prigionieri nel carcere milanese di Rebibbia solo perché erano Ebrei. Liliana, da piccola, qualche volta passava davanti al carcere in bici e non lo aveva mai osservato con interesse… non avrebbe mai pensato che ci si sarebbe trovata dentro: li rinchiusero nella cella numero 202 e quella fu l’ultima volta che passò del tempo in una stanza con suo padre. Spesso sottoponevano gli adulti a lunghissimi interrogatori e Liliana restava sola nella cella ad aspettare il padre, una, due, tre ore… “Diventavo vecchia” ricorda Liliana. Un giorno un ufficiale tedesco entrò e lesse un elenco di quasi seicento nomi che dovevano prepararsi per partire: ragazze, neonati, vecchi e signore di ogni età. Mentre si avviavano verso la stazione, incontrarono dei prigionieri “veri”: ladri, assassini e rapinatori che dissero loro: “Non abbiate paura, voi non avete fatto niente di male, che Dio vi benedica, vi vogliamo bene…”. I Tedeschi costrinsero gli Ebrei a salire su di un treno che partiva da Milano, dal binario 21. Nei vagoni c’erano solo della paglia per dormire e un secchio per fare i bisogni; non potevano sdraiarsi perché erano in troppi. Tutti piangevano, ma chi seguiva le Scritture continuava a lodare Dio anche per chi non ne era capace: “Mi ha colpito molto che i credenti lodassero Dio anche in un’occasione del genere”. Di quel vagone su 585 persone solo venti sono sopravvissute. Arrivati ad Auschwitz vennero comandati, fischiati e tirati giù dal vagone con forza.

Le donne furono separate dagli uomini e Liliana fu portata via con altre trenta prigioniere. Dal punto in cui erano, riusciva a scorgere suo padre e gli faceva dei piccoli cenni e dei saluti per dimostrare che non aveva paura, nonostante dentro fosse terrorizzata! Fu l’ultima volta che Liliana lo vide. Le donne furono spogliate e cercavano di coprirsi le une sulle altre, degli ufficiali tedeschi rasavano i capelli a tutte e depilavano tutto il corpo. Venne anche tatuato a tutte un numero sul braccio come segno di riconoscimento. Erano pressappoco seimila donne che erano di provenienza diversa e, di conseguenza, parlavano diverse lingue. “Avete presente quando sognate di cadere e poi vi svegliate e vi rendete conto che si tratta solamente di un incubo? Beh, ad Auschwitz avrei voluto che fosse solo un incubo… non lo era…”. Dalla sua posizione Liliana e le sue compagne vedevano del fumo e si chiedevano da dove provenisse. Quando lo scoprirono rimasero atterrite. Scoprirono ben presto che proveniva dai forni crematori, forni in cui i Tedeschi bruciavano gli Ebrei ormai morti, per non lasciare tracce. A Liliana e alle sue compagne prese il panico: sarebbero state bruciate anche loro nei forni? Quanto tempo restava loro prima di morire? Sarebbero mai riuscite ad uscire di lì? Ormai rassegnate, iniziarono a piangere e a raccontarsi dei loro genitori, della loro vita, di com’era fatta la loro casa…. Liliana si rese conto che per sopportare meglio la prigionia non doveva ricordare: lei rifiutava la realtà, era diventata uno scheletro, ma la sua mente non era mai stata imprigionata, la sua mente volava oltre quelle mura che la tenevano rinchiusa verso i Paesi in cui la guerra non c’era o era finita. La sua mente era come una farfalla: volava dove la portava il cuore. Liliana non guardava i corpi dei morti: si era creata un mondo tutto suo, in cui non c’era la guerra. Era un'operaia ed era costretta a uscire all'alba per abbandonare il campo; durante il tragitto vedeva i ragazzini che la guardavano con disprezzo e la insultavano. Quando alla sera tornava, vedeva sempre il camino pieno di cenere. Di notte dormiva con gli insetti più schifosi, nei luoghi più luridi e doveva dormire con i vestiti e gli zoccoli, diversamente glieli avrebbero rubati. Era costretta a dormire perché altrimenti sentiva le persone appena arrivate urlare e piangere. Liliana rischiò tre volte di essere scelta per la selezione della camera del gas. Spiega che, durante la selezione, nella sua mente ripeteva, quasi come una cantilena, “Voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere…”, ma esteriormente simulava indifferenza perché aveva paura dei Tedeschi, ma non voleva farlo notare, al contrario di altre donne che si buttavano ai loro piedi e imploravano pietà. C’erano anche quelle che si facevano spavalde, che fissavano negli occhi i Tedeschi, che li sfidavano, pur sapendo che la loro era una battaglia persa. Liliana rammenta di aver conosciuto una ragazza di nome Francesca, occhi azzurri, capelli corti e ricci. Francesca fu condannata ai gas e Liliana, tristemente, ricorda di non averle detto: “Ti voglio bene, addio,…” come avevano fatto i prigionieri con tutti gli Ebrei… no, lei non aveva salutato Francesca, ma spiega che parla sempre di lei perché vuole che la sua immagine ci rimanga impressa nella mente. Dopo quasi un anno passato ad Auschwitz Liliana e le altre donne avevano gli occhi spenti, le guance scavate: ectoplasmi di quello che erano state prima. Un giorno, nel sentire che i Russi si stavano avvicinando, i Tedeschi costrinsero tutti i prigionieri che ancora riuscivano a reggersi in piedi a camminare nella “marcia della morte”; quelli che non riuscivano venivano uccisi o, come Primo Levi, venivano lasciati al campo. Da questa marcia pochi sono sopravvissuti. Tutti erano costretti a marciare: se si fossero fermati, i Tedeschi li avrebbero uccisi a fucilate! “Noi siamo state forti a camminare e non dite mai che non ce la fate, perché lo sapete anche voi che non è vero! Inoltre, non abbassatevi a quelle piccole cose come la moda: non sono quelle che vi fanno diventare uomini e donne!” Nell’ultimo campo a nord della Germania, Liliana vide una cartina e capì quanto aveva camminato. Era primavera ed era un miracolo perché si rivedeva l’erbetta verde crescere e non era più tutto grigio come la loro vita. Arrivarono dei prigionieri francesi che erano schiavi di contadini e quando le guardavano non capivano se fossero uomini o donne, anziani o malati. Dicevano loro di non morire proprio adesso, perché la guerra stava per finire e stavano arrivando gli Americani e i Russi. Quando liberarono tutti i prigionieri, Liliana non ci credeva, non era più una prigioniera. Dalle case uscivano le persone dando cibo e acqua a tutti loro e aiutandoli. Ad un certo punto una guardia tedesca si tolse la divisa e gettò la pistola che cadde ai piedi di Liliana. Ella pensò di raccoglierla e sparargli, ma si rifiutò perché lei aveva scelto la vita e non voleva diventare un’assassina. Così si conclude la testimonianza di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di concentramento, alle camere a gas, e a tutta quella violenza verso gli Ebrei. Ci ha colpito molto come Liliana sia riuscita a estraniarsi da tutto il resto del mondo, dall’orrore che la circondava e il fatto che quando racconta non nutre odio, ma sembra quasi che provi pena per quelle persone che l’hanno tenuta prigioniera e che hanno ucciso quasi tutta la sua famiglia. Molti dei sopravvissuti come Liliana e Primo Levi hanno raccontato la loro esperienza per far sì che l’Olocausto e l’orrore della guerra non si ripetano e non vengano mai dimenticati. L’importante è ricordare, perché dagli errori commessi in passato s’impari molto.


A. & L. I E

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